mémoire
La luce verde si spense, lasciando spazio a quella rossa. Si fermò al semaforo, continuando a muovere le gambe e facendo dei piccoli salti sul posto. Il lettore mp3 impostato su shuffle passò a Society, di Eddie Vedder. La signora che stava in piedi accanto a lui gli sentì mormorare l’inizio della canzone, e si girò per guardarlo pensando stesse per rivolgerle la parola. Aveva i capelli bianchi come la neve che oramai restava soltanto ai lati delle strade, e degli orecchini pendenti rossi a forma di goccia abbinati ad un ciondolo che portava in bella vista attaccato ad una collana d’oro. Sulla spalla destra la tracolla della borsetta di pelle nera formava una piega sulla giacca che diveniva più profonda ogni volta che, con la mano, controllava che la zip fosse ancora chiusa. Quando il semaforo si illuminò di luce verde diede un’occhiata veloce su entrambi i lati, e ripartì proseguendo la corsa. La signora dai capelli bianchi rimase molto indietro, e nel tempo che lei impiegò per arrivare dall’altra parte della strada lui aveva già percorso un centinaio di metri. Ad ogni respiro faceva tre o quattro passi, e le piccole nuvole di condensa che gli si formavano di fronte al viso non avevano nemmeno il tempo di assumere una forma definita, che erano subito sostituite da altre e poi da altre ancora. La temperatura non saliva sopra i tre gradi da diversi giorni ormai. Dopo la discesa che portava al parco dove anche di sera era possibile correre senza il timore di essere investiti da un’auto, sul marciapiede davanti a lui un uomo ed una donna di mezza età passeggiavano tenendosi sottobraccio. Li raggiunse in pochi secondi, e li superò passando alla sinistra dell’uomo. Lei fece un piccolo salto di lato, spaventata per non averlo sentito arrivare. Si girò per un attimo e sollevò la mano in segno di scuse, e subito riprese la corsa verso l’ingresso del parco. Gli alberi filtravano la luce dei lampioni lasciando il sentiero parzialmente nell’ombra. In alcuni punti non si poteva essere sicuri del passo, e doveva rallentare. Ogni tanto guardava l’orologio. Aveva ancora molto tempo. Nello spiazzo davanti alla fontana un gruppo di ragazzini cercava di mandare via dei piccioni. Appena uno di loro si avvicinava troppo facevano qualche passetto laterale o spiccavano un breve volo, ma non si allontanavano mai troppo dal resto dei compagni a terra. La vita di quella città era tutta racchiusa in quei giardini. A seconda dell’ora in cui i suoi piedi percorrevano di corsa il sentierino di terra battuta e ghiaino, sulle panchine e nelle piccole piazze che si aprivano di tanto in tanto vicino alle fontane si poteva vedere una moltitudine variegata di vite di uomini, donne, cani al guinzaglio, formiche in fila che tornavano a nutrire la regina e quanto di più strano avesse mai potuto immaginare. Molte volte gli era capitato di pensare che in realtà, agli occhi di chi aveva la fortuna di vivere da sempre in quella città, quella che gli si presentava di fronte era la normalità, e che la vita tranquilla e monotona della sua cittadina sarebbe potuta essere considerata qualcosa di davvero incredibile. Fino a poche settimane prima di andare a vivere in quell’appartamento a poche centinaia di metri dalla biblioteca aveva pensato di poter pianificare le proprie giornate come aveva sempre fatto quando ancora abitava nel suo paese di fronte al mare, e di dare una cadenza rassicurante alle azioni da compiere ogni giorno. Ma già dal giorno del suo arrivo si era reso conto che vivere lontani dal luogo in cui si è cresciuti avrebbe significato non solo adattare le proprie abitudini, ma anche e soprattutto stravolgerle. Una delle prime mattine, forse la terza, o la quarta, aveva provato a prepararsi un caffè francese, ma il risultato era stato pessimo, e aveva rimpianto la vecchia caffettiera lasciata a casa in Italia. Ancora adesso che erano passati già diversi mesi, del caffè sentiva profondamente la mancanza, ed era spesso uno dei suoi desideri, mentre era quasi riuscito ad adattarsi al resto. Di tanto in tanto, quando sentiva particolare nostalgia, comprava in uno dei supermercati vicino all’ospedale una confezione di pasta, e passava il pomeriggio ad immaginare come avrebbe potuto prepararla. Ogni volta, il risultato era un po’ meno buono di quanto non si aspettasse. Al secondo giro del percorso del vialetto che circondava il parco, una ragazza lo incrociò nella direzione opposta. Per un qualche motivo che non avrebbe saputo spiegare, chi corre sviluppa quasi immediatamente una certa empatia nei confronti degli altri runners, ed è frequente salutare chi si incrocia sul proprio percorso. Lei lo guardò e mostrò un sorriso delicato e sincero. Le labbra, muovendosi, misero in risalto le fossette sulle guance, e gli occhi sembrarono illuminarsi di un bagliore che avrebbe potuto definirsi di felicità. Aveva anche lei un paio di cuffie alle orecchie e i capelli legati in una coda che saltava ad ogni passo, colpendo lo scaldacollo di pile rosa che portava per proteggersi dal freddo. Teneva i pugni chiusi e si muoveva con decisione. I muscoli delle gambe si potevano vedere muoversi coordinati sotto i pantaloni neri aderenti. Si chiese che musica ascoltasse, e immaginò di fermarla, spogliarla della tenuta da corsa, darle un bacio sulla fronte e guardarla nuda. Ma un secondo dopo era già dietro di lui di qualche metro, e quei pensieri svanirono immediatamente. Non avrebbe nemmeno saputo dire se li avesse fatti realmente o no. Percorse l’ultimo tratto del sentierino girandosi di tanto in tanto, per verificare che fosse sparita del tutto, o forse per essere sicuro che fosse esistita. Di fronte all’ingresso est, quello che dava sul giardino botanico, si fermò a stirare un po’ i muscoli. Premette il pulsantino di illuminazione dello schermo dell’orologio e nuovamente controllò l’ora. Aveva ancora molto tempo. Dallo zainetto colorato che aveva sulle spalle tolse un piccolo asciugamano ed una bottiglia di gatorade. Si asciugò il viso e la testa dal sudore, e bevve un sorso della bibita energetica. Aveva un colore celeste che le dava un’aria di artificialità che non gli era mai piaciuto. Il sapore non era molto buono, almeno per i suoi gusti, ma era il migliore tra quelli che si potevano avere. Si rimise in marcia a passo lento, e si diresse verso casa. Aveva cominciato a scendere una foschia densa, che ogni tanto, la sera, occupava alcuni dei quartieri della città. Quasi sempre il quartiere del suo appartamento ne era libero, e dalla sua stanza poteva vedere le zone della città invischiate nella nebbia come se intere nuvole fossero scese fino alle strade ed avessero imprigionato i palazzi del centro, abbracciandoli. Alla mattina, quando gli capitava di svegliarsi prima che suonasse la sveglia, si sedeva spesso alla finestra e osservava la città che riprendeva a vivere immersa in quell’atmosfera magica. L’edicola all’angolo della strada di casa era ancora aperta, e arrivava sulla strada una luce bianca da neon che si rifletteva sulle pozzanghere rimaste per la neve sciolta. Una pagina di giornale si era incollata al terreno. Nell’angolo in basso a destra c’era un’immagine che doveva essere la raffigurazione della copertina di un libro. La rapida occhiata che riuscì a dargli non gli permise di capire di che libro si trattasse, e riuscì a leggere solo un paio di parole: mémoire d’une. Il proprietario dell’edicola lo salutò con un bonne soirée Monsieur, sollevando leggermente il braccio. Lui ricambiò con la mano tesa, continuando a correre. Davanti ai gradini che portavano al portoncino di legno si fermò e scrollò un po’ le gambe. Dallo zainetto tolse il mazzo di chiavi, ne infilò una nella vecchia serratura ed entrò. Nel corridoio d’ingresso del palazzo si poteva sentire tutta una serie di odori che dipendevano, in gran parte, da ciò che la moglie del portinaio stesse cucinando per pranzo o per cena. A giudicare dall’odore pungente, il signor Poulain, quella sera, avrebbe mangiato pesce con qualche spezia che non riusciva a identificare, forse estragone, o una cosa simile. Nel suo appartamento, due piani sopra, non c’era invece alcun odore. Si guardò intorno un po’ sconsolato, non aveva molta voglia di cucinare, ma nemmeno di chiamare un take away per ordinare qualcosa. Incastrò il tappo di plastica nera nel foro della vasca da bagno e aprì l’acqua calda. Si tolse i vestiti madidi di sudore e li lanciò a terra in un angolo vicino alla porta, aprì la finestra e sistemò sul davanzale le scarpe, consumate sul lato esterno, e versò il bagnoschiuma sotto il getto che arrivava dal rubinetto. Accese la piccola radio poggiata sullo specchio. Suonava Les Passantes di Zaz, una cantante emergente che era salita alla ribalta in quei mesi. Quando l’acqua arrivò a metà circa dell’altezza della vasca, ci si infilò dentro, appoggiò la schiena sulla parete e chiuse gli occhi. Restò sdraiato nella vasca finché l’acqua non divenne troppo fredda. Il suo frigorifero aveva ben poco da offrire, per cui saltò un paio d’uova sulla padella antiaderente e tagliò del pane a fette spesse. La cantina, in compenso, era ben fornita. Nella fila di vini, un paio di bottiglie erano già state aperte nei giorni precedenti, ma nessuna pensò fosse adatta alla cena di quella sera. Aprì un sauvignon del ’96 e ne versò un po’ in un Alsazia. Tenendo lo stelo tra il medio e l’indice della mano destra fece fare qualche giro al vino all’interno del calice, poi avvicinò il bevente al naso ed inspirò piano. Non aveva sbagliato, era il vino giusto. Mandò giù i primi bocconi accompagnandosi col pane, fermandosi di tanto in tanto per bere un sorso. Terminate le uova tagliò in quarti una mela, tolse con meticolosità la buccia e i semi, li sistemò vicino al bordo del piatto e la mangiò masticando piano, come per sentirne meglio il sapore. Ordinò i piatti sul lavandino in metallo, gli diede una veloce pulita e li posizionò nelle grate della lavastoviglie, facendo attenzione che non toccassero la padella di metallo. Una mattina gli era capitato di sistemarli un po’ alla rinfusa, e le vibrazioni di quella stessa padella sotto la pressione dell’acqua avevano fatto rompere uno dei bicchieri su cui era poggiata. Niente di troppo grave, ma gli aveva richiesto un bel po’ di tempo per ripulire tutto dalle schegge di vetro. Prese un paio di jeans dal cassetto e una felpa nera col cappuccio ed una scritta bianca sul fronte, si sistemò la sciarpa ed uscì di casa. La nebbia era calata, e aveva lasciato il posto ad una pioggia leggera. Pensò che l’ultima neve rimasta ai bordi delle strade si sarebbe sciolta, ora, a meno che quella notte la temperatura non fosse scesa ancora. Il neon dell’edicola all’angolo era spento, e l’unica luce che arrivava ad illuminare l’asfalto ed il marciapiede era quella quasi arancione dei lampioni. Un taxi passò a velocità sostenuta sollevando una nuvola d’acqua dall’asfalto ed aspirandola dietro di sé come capita alle macchine di formula uno nelle gare fatte sotto la pioggia. Non era un grande appassionato di corse d’auto, meno che mai di formula uno, ma quel particolare gli era rimasto impresso da qualche gara che aveva visto, o forse per le immagini trasmesse da un telegiornale, non era tanto sicuro. Il taxi scivolò via nella notte, e con lui la sua nuvola di gocce vaporizzate. Continuò a camminare canticchiando Wonderwall, degli Oasis, fermandosi e riprendendo il ritornello più volte. Di quella canzone amava particolarmente l’accompagnamento degli archi ed il videoclip che era stato creato per il lancio nelle vj television. Il giorno stesso in cui lo aveva visto su MTV era andato ad acquistare il cd nel piccolo negozio del suo paese. Non era disponibile ed aveva dovuto ordinarlo, ed era arrivato quasi dieci giorni dopo. Per settimane non aveva ascoltato altro. Ogni volta che gli veniva in mente quella canzone, ripensava a lei. Superò il ponte e percorse a passo svelto i trecento metri che lo separavano dalla Rue Saint Eloy. Arrivò all’hotel che la pioggia aveva cominciato a cadere con forza sempre maggiore. Entrò nella duecentootto illuminata dalla luce intermittente della televisione, accesa su un canale per bambini. Lei stava seduta sul letto, nuda. Quando lo vide si alzò e si fermò di fronte allo specchio. Si spogliò in silenzio e le si mise di fianco. Si presero per mano e si guardarono nel riflesso, i volti e i loro corpi ora più chiari, ora più scuri. Nessuno dei due sorrise.
– Tornerai tutte le notti? Gli chiese.
– Tutte. E si svegliò.
2 commenti
Giampiero
Meraviglioso, da che libro è tratto?
p@sco
Ancora inedito Giampiero, dovessi mai trovare un editore che lo pubblicherà metterò un articolo sul blog Grazie mille per il commento!